QUANDO IL PASSATO RITORNA
L’Atramkhasis è un’opera che per lungo tempo è stata poco conosciuta
(attraverso alcuni frammenti sparsi); una serie di ritrovamenti fortunati ce ne
ha restituito da qualche anno, i due terzi: circa 800 versi della versione
babilonese. Sono note almeno sei versioni mesopotamiche del
mito ognuna con elementi originali rispetto alle altre (per una lettura
comparata vedi pp. 559-639 Bot 92).
I manoscritti più vecchi (1700 a.C.) sono stati portati alla luce a
Nippur. Nella versione sumerica l'eroe del diluvio si chiama
Ziusudra (= "lunga vita"), sovrano dell'antichissima città di
Shuruppak (la moderna Tell Fara).
Rimane il fatto che, sia l'Atramkhasis sia il suo
antecedente sumerico Ziusudra, sono più antichi della versione
biblica del diluvio che troviamo nella Genesi (6-8 GEN 2000). Ma questa
risale all’ottavo secolo e quindi rimane cronologicamente antecedente
all’edizione ninivita che risale a circa il 650 a.C.
Tuttavia è difficile credere che gli scrittori di Babilonia
mendicassero idee dagli ebrei deportati da Nabucodonosor anche
perché la deportazione risale al 612 a.C. E' più facile ritenere che la
tav. XI
dell'epopea sia stata redatta dalle fonti più antiche consultabili
direttamente nella biblioteca di Ninive, dove Assurbanipal aveva fatto trasferire tutto
il patrimonio letterario dei secoli passati.
(p.117 Bot 1996)
Il mito di Atramkhasis comincia al tempo in cui l’uomo ancora non esisteva. Solo
gli dei abitavano l’universo, suddivisi secondo la bipartizione fondamentale
nell’economia del tempo e del luogo, tra produttori e consumatori. Una classe
inferiore, gli Igigi, lavorava i campi per fornire
all’aristocrazia degli Anunnaki
il necessario per vivere:
Il loro lavoro era immenso
Pesante la loro pena e senza fine
il loro tormento!
Esasperati gli Igigi realizzano quello che noi chiameremo il
primo sciopero per essere dispensati da tali fatiche e essere trattati alla pari
dei loro capi.
"Gettando al fuoco le loro attrezzature,/ Bruciando le vanghe, incendiando i
bigonci" e partendo anche in piena notte per "accerchiare il palazzo" del loro
datore di lavoro e sovrano, Enlil.
Tutta l’aristocrazia degli Anunnaki è preoccupata e in
subbuglio; come ci si sostenterà se nessuno vuol più produrre il necessario per
vivere? Si riunisce un’assemblea plenaria, e Enlil si fa forte
per domare i rivoltosi, che però si proclamano decisi a resistere fino in fondo:
il lavoro è veramente insopportabile ed essi sono pronti a tutto pur di non
riprenderlo. Sconfitto, Enlil pensa allora di abdicare: disordine ancora più
temibile perché introduceva nella società divina anarchia e disgregazione.
A questo punto interviene Enki consigliere e visir di Enlil,
che incarna la lucidità, l’intelligenza, l’astuzia, la facoltà di adattamento e
d’invenzione, la padronanza delle tecniche. Per sostituire gli Igigi
recalcitranti all’ingegnoso Enki viene in mente di creare una sorta di
sostituto: l’uomo, fatto di argilla - nasce cioè dalla terra e
a essa ritorna morendo - e del sangue di un dio minore, immolato per
l’occasione, che gli dovrebbe conferire un po’ dell’intelligenza, dell’energia e
della produttività degli operai divini (Genesi, 2: " Allora il Signore plasmò
l’uomo con la polvere del suolo e gli soffiò l’alito di vita").
Dall'Enuma
Elish apprendiamo il nome della divinità immolata: il demone
Qingu, emissario di Tiamat e detentore per un breve periodo
della tavoletta dei destini prima di venire sconfitto da
Marduk.
Questa è l’unica ragion d’essere dell’uomo secondo la visione mesopotamica:
lo sfruttamento laborioso e illimitato delle materie prime del mondo per fornire
tutti i prodotti atti a garantire agli dei una vita spensierata e appagata: la
vita umana ha senso solo se posta al servizio degli dei.
[...] gli uomini costruirono nuovi picconi e zappe,
poi edificarono grandi dighe d’irrigazione,
per provvedere alla fame degli uomini
e al cibo [degli dei].
(p. 75 Bot 1996)
Le popolazioni umane moltiplicate al massimo e "il loro rumore divenuto
simile al muggito dei buoi" cominciano a venire a noia a Enlil
poiché disturbano la vita tranquilla e spensierata degli Dei, che
finiscono col perdere il sonno.
Per mettere fine a quel baccano, Enlil, impetuoso e incline
alle soluzioni estreme, si assume la responsabilità di decimare gli uomini con
l’epidemia. Ma Enki, riflessivo e consapevole del rischio di
una riduzione eccessiva del numero degli uomini, che rappresenterebbe una
catastrofe per gli dei, avverte Atramkhasis,
il Grande Saggio
che gode della sua fiducia e di una grande autorità sulla popolazione umana.
Enki gli indica come quest’ultima potrà evitare la strage: basterà far
convogliare tutte le offerte alimentari verso Namtar, divinità
dell’epidemia omicida, e gli dei, ridotti alla fame, saranno costretti a
interrompere il male. Cosa che in effetti succede.
Con il ritorno della sicurezza gli uomini riprendono il loro lavoro rumoroso
e tumultuoso, e spazientiscono nuovamente Enlil, che questa volta manda loro la
siccità. Nuova risposta di Enki, che consiglia ad Atramkhasis di far riservare i
viveri degli dei solo per Ada, padrone delle precipitazioni
atmosferiche. Le lacune del testo ci lasciano comunque supporre che Enlil non
cedette subito ma alla fine tutto rientra nell’ordine e l’umanità
rifiorisce.
Dai resti delle tavolette risulta almeno che il re degli dei, deciso alla
fine a eliminare gli uomini, sempre così chiassosi, farà appello a una
catastrofe ancor più radicale: il Diluvio.
Ormai diffidente,
egli prende tutte le precauzioni affinché il suo progetto funesto non possa
essere divulgato agli uomini, e affinché nessuno possa sfuggire alla morte. Ma
Enki fa in modo di annunciare indirettamente ad
Atramkhasis il disastro imminente e lo stratagemma che ha messo
a punto per salvarlo; ma questa volta lui solo con i suoi.
Atramkhasis dovrà
dunque "costruire una barca a doppio ponte, solidamente armata, debitamente
calafatata e robusta", della quale Enki gli "disegna lo schema sul pavimento".
Atramkhasis si rifornirà e, al segnale degli dei, vi imbarcherà le sue riserve,
il suo mobilio, le sue ricchezze, la sua sposa, i suoi parenti e affini, i suoi
capi officina (per preservare i segreti delle tecniche acquisite), e animali
domestici e selvatici; poi non dovrà far altro che "entrare nella barca e
chiuderne il boccaporto"
Il seguito lacunoso in quello che ci è rimasto del poema, può essere
tranquillamente sostituito con il racconto dell’Epopea di
Gilgamesh, posteriore di parecchi secoli ma che al poema si è
ampiamente ispirato.
Trovato il modo di spiegare il suo strano comportamento a quelli che gli
erano vicini, senza però allarmarli, Atramkhasis esegue gli ordini, "imbarca
carico e famiglia" e "offre un gran banchetto". Ma intanto è ansioso:
non fa che entrare e uscire,
Senza sedersi e stare fermo,
Col cuore infranto, e preoccupato aspetta il segnale fatidico.
Il tempo cambiò aspetto
e il temporale tuonò tra le nuvole!
Quando gli si fece sentire il brontolio del tuono
gli portarono dl bitume per chiudere il boccaporto.
E, chiuso questo,
con il temporale che brontolava sempre tra le nuvole
i venti si scatenarono.
Così ruppe gli ormeggi, per liberare la nave!
Il Diluvio, inequivocabilmente un’inondazione provocata da
piogge torrenziali, continuò allora per:
Sei giorni e sette notti: la tempesta infuriava. Anzu [il rapace divino gigantesco]
lacerava dal cielo con i suoi artigli. Era proprio il Diluvio
la cui brutalità si abbatteva sulle popolazioni come la guerra!
Non ci si vedeva più
e in quel massacro non si riconosceva più nessuno!
Il Diluvio muggiva come un bue;
il vento fischiava, simile a un aquila che stride
le tenebre erano impenetrabili: il sole era scomparso.
Quando il cataclisma ebbe schiacciato la terra, arrivato il settimo
giorno:
L’uragano bellicoso del diluvio finì,
dopo aver distribuito i suoi colpi [a caso],
come una donna nei dolori del parto:
la massa d’acqua si calmò; la burrasca cessò: il diluvio era finito!
Aprii il boccaporto e l’aria pungente e l’aria pungente mi sferzò il viso!
Poi cercai con gli occhi la riva,
all’orizzonte della distesa d’acqua:
a poche gomene emergeva una lingua di terra.
La nave si accostò: era il monte Nisir dove essa finalmente fece sosta!
Per prudenza Atramkhasis aspetta ancora una settimana prima di usare uno
stratagemma dei primi navigatori d’altura:
Presi una colomba e la lasciai andare;
la colomba fuggì, ma tornò:
non avendo nulla su cui posarsi, era ritornata!
Presi allora una rondine e la lasciai andare;
a rondine fuggì, ma rivenne: non avendo visto nulla su cui posarsi, era ritornata!
Infine presi e lasciai andare un corvo:
il corvo fuggì, ma trovando il deposito delle acque,
beccò, gracchiò, e non ritornò più!"
(p.117 Bot 1996)
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