Schiavitù
Schiavitù: Istituzione sociale propria di sistemi socioeconomici che si fondano su di essa (schiavismo), consistente in forza lavoro detenuta in proprietà privata o pubblica a scopi produttivi.
In Grecia la s. fu in origine relativamente poco diffusa, e gli schiavi stessi erano di norma trattati, come risulta dai poemi omerici, con sufficiente equità e talvolta con familiarità. Ma il rapido sviluppo economico dei secc. 7° e 6° a.C., il fiorire dei commerci e dell’artigianato portarono a un notevole incremento del numero di essi; non a caso i primi greci a far uso di schiavi acquistati con denaro furono, secondo la tradizione, gli abitanti di un’isola certamente posta al centro d’intensi traffici, Chio; e il commercio degli schiavi dovette fiorire in Stati commerciali quali Corinto ed Egina.
Schiavi erano di norma individui comprati in regioni barbariche o considerate tali (Tracia, Scizia, Siria ecc.), o anche greci caduti in s. per prigionia di guerra, per debiti, per iniquo rapimento e successiva vendita, per pene; schiavi erano inoltre non solo i nati da due schiavi, ma anche i nati da matrimoni «misti» (libero e schiava, libera e schiavo), oltreché i nati non riconosciuti dal padre.
In genere il sentimento umanitario favoriva, nel caso che lo schiavo fosse un greco, il suo riscatto. Meno umanitari furono invece i greci nei riguardi dei barbari, a proposito dei quali nel sec. 4° Platone e Aristotele giunsero a teorizzare uno status servile connaturato con l’origine barbarica. Il prezzo degli schiavi era svariatissimo a seconda delle mansioni: da 50 dramme per uno schiavo di scarso valore, fino addirittura a 6000 per chi possedesse particolari cognizioni tecniche (architetti, computisti).
Nelle città industriali (per es. Corinto, Atene) gli schiavi erano numerosissimi; meno numerosi invece nelle campagne, ove predominò, seppure affiancata da opere servili, la piccola e media proprietà terriera. Nell’un caso e nell’altro la mano d’opera servile, di minor costo, contraeva la richiesta della mano d’opera libera, causando spesso violenti contrasti sociali. Nelle case private gli schiavi erano spesso abbastanza numerosi, con mansioni ben caratterizzate.
Il trattamento variava da luogo a luogo e talvolta il padrone elevava lo schiavo a mansioni di fiducia (soprintendenza ai lavori agresti, amministrazione dei beni, gestione di botteghe, commerci ecc.). Allo schiavo competeva sempre il vitto, un alloggio, un modesto vestiario, e a volte, specie nel caso rivestisse le dette mansioni di fiducia, un piccolo guadagno. Competevano anche allo schiavo alcune garanzie di carattere giuridico-sacrale e, ove fosse schiavo domestico, la partecipazione ai sacra della famiglia cui apparteneva.
In genere il sentimento umanitario favoriva, nel caso che lo schiavo fosse un greco, il suo riscatto. Meno umanitari furono invece i greci nei riguardi dei barbari, a proposito dei quali nel sec. 4° Platone e Aristotele giunsero a teorizzare uno status servile connaturato con l’origine barbarica. Il prezzo degli schiavi era svariatissimo a seconda delle mansioni: da 50 dramme per uno schiavo di scarso valore, fino addirittura a 6000 per chi possedesse particolari cognizioni tecniche (architetti, computisti).
Nelle città industriali (per es. Corinto, Atene) gli schiavi erano numerosissimi; meno numerosi invece nelle campagne, ove predominò, seppure affiancata da opere servili, la piccola e media proprietà terriera. Nell’un caso e nell’altro la mano d’opera servile, di minor costo, contraeva la richiesta della mano d’opera libera, causando spesso violenti contrasti sociali. Nelle case private gli schiavi erano spesso abbastanza numerosi, con mansioni ben caratterizzate.
Il trattamento variava da luogo a luogo e talvolta il padrone elevava lo schiavo a mansioni di fiducia (soprintendenza ai lavori agresti, amministrazione dei beni, gestione di botteghe, commerci ecc.). Allo schiavo competeva sempre il vitto, un alloggio, un modesto vestiario, e a volte, specie nel caso rivestisse le dette mansioni di fiducia, un piccolo guadagno. Competevano anche allo schiavo alcune garanzie di carattere giuridico-sacrale e, ove fosse schiavo domestico, la partecipazione ai sacra della famiglia cui apparteneva.
Lo schiavo veniva di solito affrancato quando lui stesso, o altri, pagava il riscatto e non infrequente era la manumissione per atto di liberalità del padrone. Lo svolgimento storico dell’istituto della s. presso i romani, pur simile sotto alcuni aspetti a quanto si riscontra tra i greci, mostra tuttavia alcune peculiarità. Rari i casi in cui un civis Romanus possa cadere in s., e comunque limitati all’età più antica: gli schiavi dei romani provengono per lo più dal bottino di guerra o da acquisto sui numerosi mercati (celebre, per es., quello di Delo).
Anche in Roma vi sono differenze notevolissime nel prezzo degli schiavi e sono anzi caratteristiche del mondo sociale romano l’estrema specializzazione degli schiavi, il gran numero di essi addetti a funzioni «culturali» (bibliotecari, amanuensi, stenografi, lettori, maestri, segretari) e l’appartenenza a questa condizione sociale di persone che esercitano alcune tra le più elevate professioni (ingegneri, medici, chirurghi, professori).
La differenza più rilevante col mondo greco si rileva nella potestà del padrone sullo schiavo: essa è piena e assoluta e corrisponde all’autorità illimitata di cui gode il pater familias verso tutto ciò che è sotto la sua manus: moglie, figli, servi. Ma questa autorità assoluta col tempo venne meno, per cui allo schiavo duramente maltrattato fu concesso, analogamente a quanto avveniva in Grecia, di fuggire in un tempio e ottenere di essere assegnato ad altro padrone.
Medioevo. A determinare la decadenza della s. hanno indubbiamente contribuito le idee morali dello stoicismo e del cristianesimo, diffondendo il concetto che anche lo schiavo è un uomo, come il libero, e favorendo le manumissioni. Nel campo politico e pratico, stoicismo e cristianesimo accettarono tuttavia pienamente la s. come istituto sociale e come elemento indispensabile dell’economia del lavoro.
Anche nel Medioevo la coscienza religiosa proibiva bensì che si riducessero in s. i prigionieri di guerra, ma soltanto nel caso che prima della cattura essi fossero già di fede cattolica: l’ammetteva invece senza difficoltà per gli infedeli e gli scismatici. Il mondo germanico non solo conosceva anch’esso la s., ma la considerava senza quelle mitigazioni che il costume e l’opera legislativa degli ultimi imperatori romani erano venuti introducendovi.
La situazione giuridica degli schiavi, quale risulta dalle più antiche leggi germaniche, si avvicina a quella degli schiavi romani prima dell’impero; ma nella pratica le condizioni reali dovevano essere in molti casi migliori; fu così che, quando i germani si stanziarono entro i confini dell’impero, l’adattamento (favorito anche dalla loro conversione al cristianesimo) alle mitigate disposizioni che vi trovarono in vigore non dovette essere in generale molto difficile.
Nell’Europa occidentale dal sec. 6° all’11°, la s. continua ad avere una funzione economica d’una certa importanza nelle grandi proprietà fondiarie, sebbene anche in queste la coltivazione delle terre si basi principalmente sul lavoro delle famiglie insediate sui poderi in cui è diviso il fondo; non mancano tuttavia presso la casa del signore, laico o ecclesiastico che sia, gli schiavi veri e propri, i quali non sono addetti soltanto ai servizi domestici, ma anche ai lavori artigianali e a certi lavori agricoli e specializzati.
Questi schiavi dovevano essere in parte i discendenti dei servi romani, che non avessero goduto del beneficio della manumissione; in parte minore dovevano discendere da persone ridotte in s. nel periodo delle invasioni; ma il numero maggiore, specialmente per i servi domestici, doveva provenire da acquisti sul mercato. Con il passare del tempo, pure questi lavoratori ebbero però la possibilità di formare un nucleo familiare e di gestire autonomamente dei poderi, pagando un canone e fornendo prestazioni di lavoro ai loro padroni, finendo così per confondersi progressivamente con i contadini dipendenti di condizione libera.
In tutti questi secoli il commercio degli schiavi dovette mantenersi sempre abbastanza attivo: da principio lo esercitavano di preferenza i mercanti orientali, e fra questi sono particolarmente ricordati gli ebrei. Nel sec. 9° lo stesso commercio era esercitato pubblicamente dai veneziani: risale a quest’epoca e alle numerose importazioni di servi dai Paesi slavi l’uso, diffusosi presto in Italia e, dopo il sec. 12°, anche in Francia, di designarli col nome di «schiavi».
Intanto per il rapido aumento della popolazione che si manifesta dopo il Mille e specialmente nell’età dei comuni, il moltiplicarsi delle famiglie coloniche, il frazionamento delle terre dominiche, l’attrazione esercitata dalle città vengono a distruggere a poco a poco, nell’Europa occidentale, ogni funzione della s. nell’economia agraria e nella produzione industriale.
La s. sopravvive in prevalenza per i servizi domestici e per i servizi di guardia del corpo a sovrani o a grandi signori; per questi due scopi il commercio degli schiavi raggiunge anzi, dopo la metà del Duecento, una nuova e considerevole fioritura, sia per l’aumento della ricchezza e del lusso nei Paesi d’Occidente, sia per l’aprirsi a questo commercio di nuove fonti lungo le coste del Mar Nero e nei porti dei Paesi musulmani del Nord Africa, sia per l’intensificarsi della pirateria. Inoltre, in conseguenza delle nuove invasioni mongoliche, iniziatesi nel sec. 13°, si moltiplicò il numero dei prigionieri di guerra o dei fuggiaschi caduti in mano dei turchi, i quali li portavano sui mercati del Mar Nero, dove erano comperati dai mercanti occidentali, specialmente veneziani e genovesi.
Anche nel Medioevo la coscienza religiosa proibiva bensì che si riducessero in s. i prigionieri di guerra, ma soltanto nel caso che prima della cattura essi fossero già di fede cattolica: l’ammetteva invece senza difficoltà per gli infedeli e gli scismatici. Il mondo germanico non solo conosceva anch’esso la s., ma la considerava senza quelle mitigazioni che il costume e l’opera legislativa degli ultimi imperatori romani erano venuti introducendovi.
La situazione giuridica degli schiavi, quale risulta dalle più antiche leggi germaniche, si avvicina a quella degli schiavi romani prima dell’impero; ma nella pratica le condizioni reali dovevano essere in molti casi migliori; fu così che, quando i germani si stanziarono entro i confini dell’impero, l’adattamento (favorito anche dalla loro conversione al cristianesimo) alle mitigate disposizioni che vi trovarono in vigore non dovette essere in generale molto difficile.
Nell’Europa occidentale dal sec. 6° all’11°, la s. continua ad avere una funzione economica d’una certa importanza nelle grandi proprietà fondiarie, sebbene anche in queste la coltivazione delle terre si basi principalmente sul lavoro delle famiglie insediate sui poderi in cui è diviso il fondo; non mancano tuttavia presso la casa del signore, laico o ecclesiastico che sia, gli schiavi veri e propri, i quali non sono addetti soltanto ai servizi domestici, ma anche ai lavori artigianali e a certi lavori agricoli e specializzati.
Questi schiavi dovevano essere in parte i discendenti dei servi romani, che non avessero goduto del beneficio della manumissione; in parte minore dovevano discendere da persone ridotte in s. nel periodo delle invasioni; ma il numero maggiore, specialmente per i servi domestici, doveva provenire da acquisti sul mercato. Con il passare del tempo, pure questi lavoratori ebbero però la possibilità di formare un nucleo familiare e di gestire autonomamente dei poderi, pagando un canone e fornendo prestazioni di lavoro ai loro padroni, finendo così per confondersi progressivamente con i contadini dipendenti di condizione libera.
In tutti questi secoli il commercio degli schiavi dovette mantenersi sempre abbastanza attivo: da principio lo esercitavano di preferenza i mercanti orientali, e fra questi sono particolarmente ricordati gli ebrei. Nel sec. 9° lo stesso commercio era esercitato pubblicamente dai veneziani: risale a quest’epoca e alle numerose importazioni di servi dai Paesi slavi l’uso, diffusosi presto in Italia e, dopo il sec. 12°, anche in Francia, di designarli col nome di «schiavi».
Intanto per il rapido aumento della popolazione che si manifesta dopo il Mille e specialmente nell’età dei comuni, il moltiplicarsi delle famiglie coloniche, il frazionamento delle terre dominiche, l’attrazione esercitata dalle città vengono a distruggere a poco a poco, nell’Europa occidentale, ogni funzione della s. nell’economia agraria e nella produzione industriale.
La s. sopravvive in prevalenza per i servizi domestici e per i servizi di guardia del corpo a sovrani o a grandi signori; per questi due scopi il commercio degli schiavi raggiunge anzi, dopo la metà del Duecento, una nuova e considerevole fioritura, sia per l’aumento della ricchezza e del lusso nei Paesi d’Occidente, sia per l’aprirsi a questo commercio di nuove fonti lungo le coste del Mar Nero e nei porti dei Paesi musulmani del Nord Africa, sia per l’intensificarsi della pirateria. Inoltre, in conseguenza delle nuove invasioni mongoliche, iniziatesi nel sec. 13°, si moltiplicò il numero dei prigionieri di guerra o dei fuggiaschi caduti in mano dei turchi, i quali li portavano sui mercati del Mar Nero, dove erano comperati dai mercanti occidentali, specialmente veneziani e genovesi.
Nello stesso tempo i neri del Sudan cominciarono ad affluire ai porti nordafricani frequentati dalle navi italiane, provenzali e catalane, e per questo tramite a figurare sempre più numerosi nelle corti principesche e nei palazzi dei ricchi mercanti cristiani. Una diversione in questa corrente di traffico, importantissima per le conseguenze future, fu determinata dalle esplorazioni e dalle conquiste portoghesi lungo le coste occidentali dell’Africa; i portoghesi poterono acquistare direttamente e trasportare per via di mare a Lisbona gli schiavi sudanesi, i quali costituirono anzi il principale oggetto delle loro esportazioni dall’Africa, e fecero di Lisbona, per più di un secolo, il maggior mercato di schiavi d’Europa. schiavitù
Età moderna. La scoperta dell’America aprì una nuova era nella storia della s., che riacquistò nel Nuovo Mondo la funzione che aveva avuto nell’antichità nel mondo romano e orientale, e diventò lo strumento più efficace per lo sfruttamento agricolo delle colonie. Non mancarono i tentativi di valersi per questo scopo del lavoro forzato degli indigeni e degli stessi europei.
La mano d’opera europea, a cui non provvedeva che in misura minima l’emigrazione libera, era reclutata con vari mezzi, come la servitù temporanea (in uso nel Seicento particolarmente in Germania nel periodo della sua massima depressione economica) e anche col mezzo della deportazione dei condannati. Lo sfruttamento degli amerindi, sia che fossero ridotti in s. sia che fossero costretti a lavori forzati in encomienda, venne ostacolato da una parte dagli stessi amerindi, che mal si adattavano al lavoro eccessivamente gravoso nelle piantagioni e nelle miniere, dall’altra dai missionari, che chiedevano per gli indigeni trattamenti più umani, anche in relazione alla loro conversione al cattolicesimo.
Con le leggi di Burgos (1512-13) si tentò di limitare la progressiva riduzione in s. degli amerindi; l’intervento in favore degli indigeni da parte del missionario domenicano B. de Las Casas, vescovo di Chiapas, presso Carlo I di Spagna portò alla promulgazione di nuove leggi (1542-43) che proibirono la riduzione in s. degli amerindi e l’istituzione di nuove encomiendas.
Ma la richiesta crescente di mano d’opera e il progressivo decrescere della popolazione india, decimata anche da malattie portate dagli europei, provocarono la sostituzione degli indigeni americani in determinati settori lavorativi con schiavi africani. La strada alla tratta negriera era stata aperta dalle numerose importazioni in Portogallo e Spagna; di una prima importazione di neri dalla Spagna a Hispaniola si ha notizia fin dal 1502; successivi decreti del 1511, 1512, 1513 autorizzavano il traffico diretto dei neri dalle coste della Guinea alle Indie occidentali e Carlo V concesse nel 1517 il privilegio di fornire annualmente 4000 schiavi neri a Hispaniola, Cuba, Giamaica e Puerto Rico.
Il lavoro degli schiavi neri si limitò dapprima alle colonie spagnole, ma fu esteso poco dopo nel Brasile, con l’incoraggiamento della Corona portoghese, che ne traeva vantaggi fiscali; vantaggi anche maggiori ne traeva la Corona spagnola, la quale considerava la provvista degli schiavi come un proprio monopolio. Ma se le ragioni fiscali erano in primissima linea, il monopolio e la stretta vigilanza della Corona erano determinate anche da ragioni religiose, per il timore spesso manifestato dalla Chiesa spagnola che un’importazione troppo numerosa di schiavi di ogni provenienza potesse ostacolare l’opera della conversione degli amerindi al cattolicesimo.
All’importazione degli schiavi neri è legato l’estendersi delle piantagioni della canna da zucchero nel Brasile settentrionale e nelle Antille, poiché gli indigeni non si erano rivelati adatti a quel genere di coltura; perciò la tratta dei neri, contenuta per gran parte del sec. 16° entro limiti ancora modesti, cominciò a intensificarsi negli ultimi anni del secolo e nei due secoli successivi. Affidato nel sec. 16° dalla Corona spagnola ai maggiori offerenti, esercitato per qualche tempo da alcuni gruppi di mercanti genovesi e tedeschi, e passato nel secolo stesso in mano dei portoghesi, che ne tennero il monopolio fino al principio del Settecento, il commercio dei neri africani sulle coste americane si andò, molto prima di quell’epoca, estendendo anche agli altri popoli marinari dell’Atlantico, francesi, inglesi e olandesi, che lo esercitarono sia nella forma della pirateria e del contrabbando, sia legalmente per il rifornimento delle colonie che anch’essi andavano assicurandosi al di là dell’Oceano.
Ma soprattutto nel sec. 18° quel commercio, favorito dal rapido sviluppo delle piantagioni nelle colonie meridionali dell’America del Nord, assunse proporzioni enormi e per la massima parte fu esercitato da francesi e inglesi. Nel quinquennio 1751-55, che segnò l’apogeo del commercio negriero della Francia, la sola Nantes vi partecipò con una media annuale di 9000 schiavi, trasportati da 33 navi; nello stesso periodo l’Inghilterra si era assicurata il primo posto nel commercio degli schiavi avendo la Pace di Utrecht (1713) aggiunto al rifornimento delle colonie britanniche il monopolio per un trentennio del mercato coloniale spagnolo.
La mano d’opera europea, a cui non provvedeva che in misura minima l’emigrazione libera, era reclutata con vari mezzi, come la servitù temporanea (in uso nel Seicento particolarmente in Germania nel periodo della sua massima depressione economica) e anche col mezzo della deportazione dei condannati. Lo sfruttamento degli amerindi, sia che fossero ridotti in s. sia che fossero costretti a lavori forzati in encomienda, venne ostacolato da una parte dagli stessi amerindi, che mal si adattavano al lavoro eccessivamente gravoso nelle piantagioni e nelle miniere, dall’altra dai missionari, che chiedevano per gli indigeni trattamenti più umani, anche in relazione alla loro conversione al cattolicesimo.
Con le leggi di Burgos (1512-13) si tentò di limitare la progressiva riduzione in s. degli amerindi; l’intervento in favore degli indigeni da parte del missionario domenicano B. de Las Casas, vescovo di Chiapas, presso Carlo I di Spagna portò alla promulgazione di nuove leggi (1542-43) che proibirono la riduzione in s. degli amerindi e l’istituzione di nuove encomiendas.
Ma la richiesta crescente di mano d’opera e il progressivo decrescere della popolazione india, decimata anche da malattie portate dagli europei, provocarono la sostituzione degli indigeni americani in determinati settori lavorativi con schiavi africani. La strada alla tratta negriera era stata aperta dalle numerose importazioni in Portogallo e Spagna; di una prima importazione di neri dalla Spagna a Hispaniola si ha notizia fin dal 1502; successivi decreti del 1511, 1512, 1513 autorizzavano il traffico diretto dei neri dalle coste della Guinea alle Indie occidentali e Carlo V concesse nel 1517 il privilegio di fornire annualmente 4000 schiavi neri a Hispaniola, Cuba, Giamaica e Puerto Rico.
Il lavoro degli schiavi neri si limitò dapprima alle colonie spagnole, ma fu esteso poco dopo nel Brasile, con l’incoraggiamento della Corona portoghese, che ne traeva vantaggi fiscali; vantaggi anche maggiori ne traeva la Corona spagnola, la quale considerava la provvista degli schiavi come un proprio monopolio. Ma se le ragioni fiscali erano in primissima linea, il monopolio e la stretta vigilanza della Corona erano determinate anche da ragioni religiose, per il timore spesso manifestato dalla Chiesa spagnola che un’importazione troppo numerosa di schiavi di ogni provenienza potesse ostacolare l’opera della conversione degli amerindi al cattolicesimo.
All’importazione degli schiavi neri è legato l’estendersi delle piantagioni della canna da zucchero nel Brasile settentrionale e nelle Antille, poiché gli indigeni non si erano rivelati adatti a quel genere di coltura; perciò la tratta dei neri, contenuta per gran parte del sec. 16° entro limiti ancora modesti, cominciò a intensificarsi negli ultimi anni del secolo e nei due secoli successivi. Affidato nel sec. 16° dalla Corona spagnola ai maggiori offerenti, esercitato per qualche tempo da alcuni gruppi di mercanti genovesi e tedeschi, e passato nel secolo stesso in mano dei portoghesi, che ne tennero il monopolio fino al principio del Settecento, il commercio dei neri africani sulle coste americane si andò, molto prima di quell’epoca, estendendo anche agli altri popoli marinari dell’Atlantico, francesi, inglesi e olandesi, che lo esercitarono sia nella forma della pirateria e del contrabbando, sia legalmente per il rifornimento delle colonie che anch’essi andavano assicurandosi al di là dell’Oceano.
Ma soprattutto nel sec. 18° quel commercio, favorito dal rapido sviluppo delle piantagioni nelle colonie meridionali dell’America del Nord, assunse proporzioni enormi e per la massima parte fu esercitato da francesi e inglesi. Nel quinquennio 1751-55, che segnò l’apogeo del commercio negriero della Francia, la sola Nantes vi partecipò con una media annuale di 9000 schiavi, trasportati da 33 navi; nello stesso periodo l’Inghilterra si era assicurata il primo posto nel commercio degli schiavi avendo la Pace di Utrecht (1713) aggiunto al rifornimento delle colonie britanniche il monopolio per un trentennio del mercato coloniale spagnolo.
Il numero considerevole di schiavi che alla fine del sec. 18° si trovava nel continente americano (forse vicino ai 3 milioni) non rappresentava che una piccola parte del numero dei neri che in 300 anni erano stati strappati al loro Paese d’origine: la mortalità infatti fu tra essi altissima, sia durante il trasporto, effettuato in condizioni disumane, sia nelle piantagioni, dove erano privi di ogni protezione nei riguardi del proprietario, che in generale li sfruttava come animali da lavoro; i suicidi, le fughe e le ribellioni furono frequenti, in particolare nei primi tempi o fra gli schiavi arrivati di recente; le nuove generazioni, nate in America, non opponevano per lo più alcuna resistenza.
Nel periodo dell’Illuminismo la condizione degli schiavi cominciò ad attirare l’attenzione e le critiche dei ceti più colti. Per lunghi anni la propaganda condotta dalle associazioni antischiaviste costituitesi in Europa e in America non raggiunse alcun effetto, perché troppo forti erano gli interessi privati contro cui essa urtava; d’altra parte al commercio negriero era legato l’interesse anche dello Stato, che vedeva in esso un mezzo efficace per aumentare la propria potenza navale, impiegando un numero considerevole di navi e di marinai. Il distacco delle 13 colonie nordamericane, dove più vivo, almeno nel Sud, era l’interesse per il mantenimento della s., venne a togliere l’ostacolo più grave contro cui urtava la propaganda abolizionistica in Inghilterra.
Questa propaganda, che aveva già registrato alcuni successi, ottenne, dopo ripetuti tentativi, il primo trionfo legislativo col bill del 1807 che proibì la tratta marittima. L’Inghilterra, preceduta già su questa via dalla Francia rivoluzionaria (1791), che però poco dopo revocò l’abolizione, e dalla Danimarca (1792), fu seguita nello stesso anno dagli USA (1807), dai Paesi Bassi (1814), dalla Svezia (1815), dalla Francia stessa (1815); dagli Stati dell’America Centrale e Meridionale (eccetto il Brasile), nel momento in cui acquistarono l’indipendenza; dal Portogallo (1830). Il Congresso di Vienna del 1815 si era pronunciato in linea di massima contro la s. proclamando la necessità di un’intesa internazionale per la sua soppressione. Si arrivò così, dopo varie convenzioni fra singoli Stati, al trattato, anglo-franco-russo-austro-prussiano (1841), per cui ognuno dei contraenti concedeva agli altri il diritto reciproco di visita a bordo dei vascelli sospetti di tratta nelle acque africane, escluso il Mediterraneo.
La soppressione della tratta condusse in breve tempo all’abolizione della s. nei pochi Stati occidentali in cui ancora sopravviveva e nelle colonie d’oltremare. Iniziò la Gran Bretagna nel 1833, seguirono la Francia nel 1848, e poco dopo i Paesi Bassi e gli Stati dell’America Latina, eccettuato il Brasile, gli USA con il 13° emendamento alla Costituzione (1865). Rispettivamente nel 1873 e nel 1886 la aboliva la Spagna nelle due colonie americane che le erano rimaste, Puerto Rico e Cuba; tra il 1883 e il 1886 lo fece anche il Brasile, che aveva resistito per il timore che ne derivasse la rovina delle sue grandi piantagioni di caffè.
Nel periodo dell’Illuminismo la condizione degli schiavi cominciò ad attirare l’attenzione e le critiche dei ceti più colti. Per lunghi anni la propaganda condotta dalle associazioni antischiaviste costituitesi in Europa e in America non raggiunse alcun effetto, perché troppo forti erano gli interessi privati contro cui essa urtava; d’altra parte al commercio negriero era legato l’interesse anche dello Stato, che vedeva in esso un mezzo efficace per aumentare la propria potenza navale, impiegando un numero considerevole di navi e di marinai. Il distacco delle 13 colonie nordamericane, dove più vivo, almeno nel Sud, era l’interesse per il mantenimento della s., venne a togliere l’ostacolo più grave contro cui urtava la propaganda abolizionistica in Inghilterra.
Questa propaganda, che aveva già registrato alcuni successi, ottenne, dopo ripetuti tentativi, il primo trionfo legislativo col bill del 1807 che proibì la tratta marittima. L’Inghilterra, preceduta già su questa via dalla Francia rivoluzionaria (1791), che però poco dopo revocò l’abolizione, e dalla Danimarca (1792), fu seguita nello stesso anno dagli USA (1807), dai Paesi Bassi (1814), dalla Svezia (1815), dalla Francia stessa (1815); dagli Stati dell’America Centrale e Meridionale (eccetto il Brasile), nel momento in cui acquistarono l’indipendenza; dal Portogallo (1830). Il Congresso di Vienna del 1815 si era pronunciato in linea di massima contro la s. proclamando la necessità di un’intesa internazionale per la sua soppressione. Si arrivò così, dopo varie convenzioni fra singoli Stati, al trattato, anglo-franco-russo-austro-prussiano (1841), per cui ognuno dei contraenti concedeva agli altri il diritto reciproco di visita a bordo dei vascelli sospetti di tratta nelle acque africane, escluso il Mediterraneo.
La soppressione della tratta condusse in breve tempo all’abolizione della s. nei pochi Stati occidentali in cui ancora sopravviveva e nelle colonie d’oltremare. Iniziò la Gran Bretagna nel 1833, seguirono la Francia nel 1848, e poco dopo i Paesi Bassi e gli Stati dell’America Latina, eccettuato il Brasile, gli USA con il 13° emendamento alla Costituzione (1865). Rispettivamente nel 1873 e nel 1886 la aboliva la Spagna nelle due colonie americane che le erano rimaste, Puerto Rico e Cuba; tra il 1883 e il 1886 lo fece anche il Brasile, che aveva resistito per il timore che ne derivasse la rovina delle sue grandi piantagioni di caffè.
Rimaneva soltanto, oltre a poche sopravvivenze sporadiche di s. domestica nei Paesi orientali, il continente africano dove, specialmente nelle regioni centrali e meridionali, la s. era considerata un fenomeno endemico. Contro di essa rivolsero i loro sforzi gli Stati europei (Conferenza di Berlino del 1885; Conferenza antischiavista e Atto generale di Bruxelles del 2 luglio 1890, Convenzione di Saint-Germain del 10 settembre 1919; Convenzione di Ginevra del 1926, promossa dalla Società delle nazioni e ratificata da 38 Stati, che sanciva la totale soppressione del commercio degli schiavi).
Nel 1932 il comitato degli esperti sulla s., nominato dalla Società delle nazioni, constatava che la s. era riconosciuta legalmente soltanto in alcune regioni dell’Asia centrale, nel Tibet, in Arabia e in Abissinia. Dopo la Seconda guerra mondiale, il divieto di tenere qualsiasi persona in stato di s. è stato riaffermato, nell’ambito delle Nazioni Unite, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, del 10 dic. 1948 (art. 4) e dalla Convenzione supplementare sull’abolizione della s., del commercio degli schiavi e di istituzioni e pratiche analoghe alla s., adottata a Ginevra il 7 sett. 1956; quest’ultima, in particolare, ha esteso l’ambito delle situazioni da trattare come schiavitù.
le situazioni di s. più allarmanti sono rappresentate dalla servitù per debiti, dallo sfruttamento del lavoro infantile e dal traffico di bambini a scopo di prostituzione e pornografia, per adozioni illegali o per il trapianto di organi, dalla violenza familiare sulle donne e sui bambini, dalla s. sessuale delle donne, sia sotto la forma della costrizione alla prostituzione, sia sotto quella dello stupro sistematico in tempo di guerra.
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