Che nella pandemia Covid 19 non fossimo tutti sulla stessa barca era chiaro dall’inizio.
Ma che dopo tre mesi di lockdown gli unici a guadagnare fossero le catene della grande distribuzione organizzata, di fronte a milioni di persone improvvisamente ritrovatesi a fare i conti con gli stenti dalla mancanza di cassa integrazione o a stipendio ridotto, rappresenta un vero e proprio pugno nello stomaco.
Il governo Conte a marzo vara un decreto con il quale consegna 400
milioni di euro per buoni spesa e pacchi alimentari, che non riescono a
sfamare neanche la metà dei richiedenti, ma in compenso quelle risorse
pubbliche finiscono in tasca ai supermercati.
Che beneficiano della
quarantena forzata anche aumentando vertiginosamente i prezzi delle merci che “tirano”: frutta e verdura, ma anche prodotti dell’igiene intima e per la pulizia domestica. Gli incassi salgono del 20 per cento a
livello nazionale.
E il “popolo” che fa? Aspetta che l’Inps dia un
segno di vita, si stressa telefonando centinaia di volte agli uffici
pubblici per fare domande per i bonus, fruga gli ultimi risparmi, si indebita con amici e parenti. Ma soprattutto “rinuncia”. C’è una grande privazione di massa che segna i nervi
di tutti coloro che sono stati discriminati dall’utilizzo dei fondi
pubblici.
Le grandi imprese, le società commerciali e finanziarie, gli
“ultimi padroni” si lamentano col governo, e ottengono iniezioni
economiche per miliardi di euro, libertà di “non pagare”, sconti e
detrazioni, mano libera nello sfruttare i dipendenti, anche a costo
della salute pubblica. Invece chi campa della sua fatica è stato
condannato ad una attesa fatta di ulteriore sacrifico.
Anche a Pisa, come in tutta Italia, per tre mesi la risposta sotterranea ma fortissima è stata quella di organizzare tre punti di distribuzione di quartiere
e condivisione di tutto quello che è stato possibile raccogliere, di
cibo e altri oggetti.
Più di centocinquanta nuclei familiari, circa 450
persone, si sono conosciute in queste attività e ognuno a suo modo ha
contribuito per non lasciare nessuno senza la spesa in tavola.
Ci sono
persone che già erano abituate a lottare per ottenere dai servizi
sociali quei contributi necessari a pagare le tante cose indispensabili
rese care da mercato. Ma ce ne sono tantissime nuove che, in attesa di
cassa integrazione, non si erano mai ritrovate a fare i conti con
questa penuria.
Le raccolte alimentari stanno continuando, ma il numero e la varietà dei bisogni crescono rapidamente, nel mentre che lo Stato continua ad evitare di coprire le spese sociali della popolazione.
La grande distribuzione in questi mesi di Corona virus ha scoperto la fragilità del suo ruolo. Quello che sembrava un tempio del consumo,
dove le persone incantate da pubblicità e obbligate dalle regole del
commercio multinazionale spendevano e compravano, si è rivelato un
gigante dai piedi d’argilla.
Le proteste dei dipendenti, cassieri e
magazzinieri, per lo sforzo non ripagato ma anzi peggiorato a causa di
turni estenuanti e retribuzioni magre. Lo sfruttamento dei braccianti,
che hanno iniziato a scioperare e rivendicare documenti e condizioni
sociali dignitose.
I facchini delle logistica che hanno continuato
sempre a lavorare col rischio di contrarre il Covid 19 per spostare le
milioni di merci necessarie; i produttori agricoli schiacciati dalle
aste al ribasso della catene commerciali costretti a buttare via i
prodotti; le difficoltà legate ai trasporti nella crisi della mobilità
indotta dal rischio contagio.
Anelli di una catena che si mostra per
tutta la propria nocività e alla fine dei conti
pericolosità di un modello fatto per sviluppare i fondi d’investimento,
più che per “nutrire” la popolazione.
Era ovvio che prima o poi qualcuno iniziasse direttamente a porre il problema.
Infatti ieri pomeriggio verso le 17 si è svolta dentro al grande centro commerciale di Pisanova una “strana” dimostrazione. Circa cento persone
hanno preso i carrelli della spesa entrando nell’Esselunga.
Si è
formata una lunghissima fila di “carrelli vuoti” che si sono
posizionati prima di fronte alle casse e poi di fronte al box
informazioni.
Le richieste talmente semplici e di buon senso da
sorprendere la massa dei consumatori presenti erano: non
sprecare più nulla, ma redistribuire. Abbassare i prezzi delle merci
necessarie rendendoli fruibili a tutta la popolazione. Contribuire con i
guadagni della Grande Distribuzione al pagamento dei Buoni Spesa e dei
Pacchi Alimentari.
I carrelli vuoti sono usciti dalle corsie piene di merci, ma la
normale tentazione di prendere il necessario non potendo però
acquistarlo è stata combattuta questa volta non con lo spirito di
sacrificio individuale, col “magone” allo stomaco di chi per l’ennesima
volta rinuncia “perché non può permetterselo”.
È esplosa,
questa volta. I carrelli vuoti si sono ribaltati e ammassati di fronte
agli uffici della direzione. La fila si è scomposta cambiando lo
scenario da tempio del consumo ad agorà pubblica. Una cosa bellissima. Non più fretta e stress, ma per due ore i consumatori hanno scioperato dal loro “compito”.
Hanno preso parola tante voci che hanno raccontato il proprio vissuto e
scoperto le ingiustizie subite in questi mesi, in questi anni.
“Un kg di clementine ha 2,20 euro di prezzo al supermercato. La Grande Distribuzione Organizzata lo paga 0,67, risparmia sulla forza lavoro e sui costi di trasporto.” “I fatturati sono aumentati del 19 per cento in questi ultimi due mesi”. “A Pisa 700mila euro di soldi pubblici sono finiti in tasca ai supermercati con i buoni spesa, nel mentre diecimila persone hanno potuto usufruire del buono solo una volta, ed altre migliaia sono state escluse”.
Il numero e il contenuto della presenza sociale ha spiazzato letteralmente le cattive abitudini del supermercato, il “corri, scegli, paga e vai via”.
Le decine di persone hanno manifestato non carità ma pretesa di cambiamento di un rapporto tutto sbilanciato a favore dei pochissimi proprietari del mercato. “Non è possibile speculare sulle disgrazie altrui”, questo era il ricorrente motivo della indignazione pubblica.
Ma a ratificare l’inizio di un movimento è la percezione di sostegno,
complicità e riconoscimento che è avvenuto dentro l’atrio del centro
commerciale, da parte di centinaia di altri consumatori che hanno
applaudito, preso il volantino, discusso coi presenti. Non considerare
più un problema individuale quello di avere difficoltà a
comprare le cose necessarie, quello di compromettere la qualità della
spesa, quello di fregarsene delle conseguenze degli acquisti su chi
lavora.
Non considerare più normale che i prezzi vengano alzati, ma discutere, monitorare, reclamare e contestare la falsa natura delle regole del commercio. Non considerare più normale accettare di vivere lo spazio urbano secondo i ritmi imposti dal portafoglio, e decidere invece di fermarsi e di socializzare, di farsi delle domande e soprattutto di avere delle risposte.
Le risposte ieri però dal vertice dell’Esselunga non sono arrivate. A
un certo punto sono spuntati militari, e personale di polizia in
borghese della digos, chiamate per verificare quanto stava accadendo.
Hanno preso semplicemente atto che tantissime famiglie hanno iniziato a
pretendere giustizia da chi in questi mesi ha continuato a buttare via
ogni sera quintali di cibo, da chi ha aumentato i prezzi nel mentre
migliaia di persone campano con le collette alimentari, da chi non ha
dato un euro dei milioni che ha a disposizione per contribuire al
benessere della comunità.
Queste risposte non sono arrivate ieri sera, ma c’è da scommettere che le domande aumenteranno.
Fonte: http://www.riscattopisa.it/
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