L'IMPOSSIBILE TRINITÀ
L’impossibile trinità della globalizzazione. Democrazia
sovranità e globalizzazione economica sono reciprocamente incompatibili. Lo
sapevamo in molti e adesso ci arrivano con il consueto ritardo anche alcuni
economisti di Roberto Pecchioli
L’impossibile trinità della globalizzazione
Democrazia, sovranità e
globalizzazione economica sono reciprocamente incompatibili. Lo sapevamo in
molti, e da tempo. Adesso ci arrivano, con il consueto ritardo, anche alcuni
economisti di primo piano. Uno di loro è il turco, ebreo sefardita con cattedra
ad Harvard, Dani Rodrik. Il professorone passa per un rivoluzionario, nel
mondo accademico dell’economia e della finanza, per avere enunciato un
principio, anzi un trilemma dell’impossibilità che il senso comune aveva
elaborato da tempo.
Non si possono avere tutti
insieme, teorizza Rodrik, tre “benefici”: l’integrazione economica globale, un
sistema politico in cui il popolo conti e decida e la sovranità nazionale.
Forme diverse di combinazione possono funzionare per due dei tre elementi del
trilemma, ma tertium non datur. La prima reazione, dinanzi alle idee di Rodrik
, è di fastidio. Come tutta la corporazione degli economisti, sta bene attento
a non uscire dal filone vincente, mainstream; per lui, la globalizzazione
economica è comunque un bene ed ha portato grandi vantaggi a tutto il mondo. Ci
permettiamo di dissentire, in ottima e numerosa, pur se non accademicamente
corretta compagnia.
Ma veniamo alla polpa, a quello
che nel discorso di Dani Rodrik è invece coraggioso ed interessante.
Innanzitutto, l’onesta ammissione di essersi sbagliato, caso raro tra i membri
della sua professione. Come gli scienziati della natura, fisici, biologi,
chimici, che nel loro campo, peraltro, conseguono risultati tangibili, gli
economisti sono usi a discutere da pari a pari con Dio, anzi ad istruire il
Padreterno con i loro istogrammi fallimentari , i modelli matematici e le
teorizzazioni nel chiuso di una stanza . I risultati sono sotto gli occhi di
tutti, a meno di non far parte dell’1 per cento dei super ricchi e del 10 per
cento dei privilegiati loro maggiordomi nei vari settori.
Rodrik, al contrario, afferma di
avere sottovalutato l’Unione Europea, che, riconosce, è fallita proprio nel
tentativo di combinare l’iper globalizzazione (il mercato unico continentale)
con un ordinamento democratico, dunque fondato sul potere dei
popoli. Ricade anch’egli, peraltro, nella sindrome di onnipotenza,
asserendo che l’UE intendeva creare “un demos ed un ordinamento
politico”. Premesso che il demos, il popolo, non si crea, semmai lo si può
distruggere, e che non esiste un popolo europeo, ma una civiltà plurale del
nostro piccolo continente, l’ordinamento europoide si è dimostrato
dittatoriale, nemico della volontà popolare non meno che della partecipazione.
La sovranità, ce l’ha sottratta senza chiedere permesso alcuno e – motivo della
sua crescente impopolarità - senza offrire in cambio né maggiore ricchezza, né,
tanto meno, sicurezza. Quanto ad un progetto alto e generale per cui lavorare
ed eventualmente sacrificarsi, morire per Maastricht – titolo autentico di
un libro di Enricostaisereno Letta – non è l’aspirazione di nessuno. E’,
piuttosto, incubo quotidiano per milioni di persone.
Creare un popolo, poi, non è
davvero cosa per economisti, specialisti di quella scienza triste, come la chiamò Thomas Carlyle,
cui è arduo attribuire lo statuto stesso di scienza, a meno di non prendere per
oro colato l’ipotesi di Popper – un liberale a ventiquattro carati – sul
criterio di falsificabilità. La sincera ammissione di uno del gruppo- Rodrik è
un cattedratico di quelli che contano- sul fatto che volessero/vogliano
creare un popolo europeo e sottometterlo ad un unico ordinamento è di quelle
che pesano, ma dimostra anche l’indifferenza, se non l’ostilità manifesta di
questi signori a due punti del trilemma. Non hanno alcuna simpatia per la
democrazia, intesa come partecipazione del popolo al proprio destino ( Moeller
Van den Bruck) né tanto meno per la sovranità dei popoli e delle nazioni.
Diciamola tutta: odiano i popoli
e lavorano per abolirli, ecco perché il trilemma è in realtà un semplice
dilemma: o globalizzazione, o sovranità, qualunque sia l’ordinamento politico
concreto con cui ogni popolo esercita il proprio diritto su se stesso. Del resto,
agli economisti, e soprattutto ai loro mandanti e padroni, un elemento
costitutivo della sovranità giuridica proprio non va giù, ed è il territorio.
Abbattono le frontiere, con l’aiuto determinante della tecnica e della
tecnologia informatica, non possono che lavorare per fiaccare i popoli e
l’istintivo desiderio di ciascuno di comandare nella propria casa e godere dei
frutti del lavoro svolto.
Nella costruzione teorica di
Rodrik si ravvisa un’autocritica che non va oltre un tremulo riformismo. Come una
volta la Chiesa faceva due passi avanti ed uno indietro, per prudenza e per
assorbire le spinte e controspinte del tempo, il professore di Harvard e
Princeton rimprovera alla globalizzazione non di esistere o di fare il male che
fa, ma di essere semplicemente troppo veloce. Anche per lui gli Stati
nazione sono un problema, forse devono scomparire, ma con calma, senza fretta,
sciogliersi lentamente in una sorta di non meglio definito federalismo globale.
Essi infatti, insiste, generano rischio sovrano, ed il malfunzionamento del
sistema finanziario globale è legato proprio ai “costi di transazione”, così
li definisce, indotti dai diversi ordinamenti e dalla fastidiosa sovranità
pretesa da nazioni, governi e popolazioni. Insomma, una critica onesta e sicuramente
animata da buone intenzioni, ma profondamente interna al sistema.
Tocca accontentarsi, però, se il
quotidiano di Confindustria e Bibbia liberista dello Stivale, Il Sole-24 Ore,
ha attaccato i libri di Rodrik, in particolare La globalizzazione intelligente,
chiedendosi con il sarcasmo e la superiorità insolente di chi tutto sa e
conosce gli arcana imperii, se la ricetta da lui prescritta dopo la diagnosi
del trilemma sia il semplice ritorno agli Stati nazionali. Rodrik, invero, si
limita a constatare che sussiste il diritto per gli Stati di proteggere i loro
sistemi sociali ( noi aggiungiamo anche tutti gli altri fattori della
comunità nazionale) , ma tanto basta ai più allineati - embedded, incorporati,
integrati, è il termine inglese inventato per definirli - per scandalizzarsi ed
affidare una piccata replica ad una gentile economista ultraliberista come Rosa
Maria Lastra. L’illustre cattedratica è docente a Londra, associata al comitato
scientifico della London School of Economics (wow !), consulente del Fondo
Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e della Federal Reserve
americana. Insomma, una il cui curriculum vitae fa scorrere brividi di
terrore lungo la schiena.
Questo è il virgolettato
attribuito alla nuova lady di ferro del liberismo duro e puro: “La dicotomia
tra mercati internazionali e leggi nazionali può essere meglio affrontata
proprio attraverso l’internazionalizzazione delle regole e delle istituzioni
che governano i mercati mondiali. La risposta è quella di più leggi internazionali
e meno nazionali. Il Fondo Monetario Internazionale, istituzione al centro del
sistema monetario e finanziario internazionale (e che paga assai
profumatamente la dolce signora, N.d R.) è nella migliore posizione per
diventare uno sceriffo globale della stabilità”.
Sceriffo globale della stabilità,
dice proprio così, e dobbiamo ringraziare la studiosa – Lastra è un cognome che
evoca il cimitero – per la
sincerità. Si scrive globalizzazione, si legge Nuovo Ordine
Mondiale, governo mondiale, più Trattati Transatlantici (TTIP), più
delocalizzazioni produttive, meno diritti sociali, una lastra di marmo cala sui
popoli e sulle persone che vivono e vestono panni. Altro che democrazia o
trilemmi impossibili.
Invero, già negli anni Sessanta
del Novecento, due economisti che lavoravano separatamente, Robert Mundell e
Marcus Fleming, elaborarono un primo trilemma, chiamato trinità impossibile o
trio inconciliabile, rispetto alla possibilità della costruzione di un sistema
finanziario “stabile”, magica parola che sembra possedere effetti erotici se a
pronunciarla sono economisti o finanzieri embedded. I due dimostrarono
che, dati tre obiettivi, un tasso fisso di cambio, l’indipendenza nazionale in
materia monetaria e la mobilità dei capitali, un’autonoma economia
aperta non può conseguire che due soli traguardi, rinunciando al
terzo. Vivevamo, all’epoca, nel pieno del sistema di cambi (semi) fissi di
Bretton Woods, vigeva il gold standard, ovvero la teorica convertibilità in
oro del dollaro dominante, e le banche centrali di molti Stati tra cui il
nostro erano ancora controllate dal potere pubblico. I padroni globali,
quelli che perseguono con tenacia il governo mondiale, hanno fatto tesoro della
lezione dei due studiosi di mezzo secolo fa.
Il sistema è ora completamente
saltato, la politica monetaria è saldamente e per legge in mano ai banchieri
privati, quella economica è di pertinenza dei mercati dominati da poche decine
di grandi attori globali e fondi giganteschi come Vanguard, Black
Rock, il fondo sovrano del Qatar. Le leggi degli Stati valgono pochissimo e
vengono continuamente bypassate dal sistema finanziario degli investimenti,
che, dicono, vota tutti i giorni. Il grande padrone, il leviatano universale è
il falso principio del debito “sovrano” degli Stati. Ecco che cosa è rimasto di
sovrano, a tutti noi, il debito !
Karl Polanyi, nel fondamentale
trattato La
Grande Trasformazione, scrisse in piena Seconda Guerra
Mondiale, era il 1944, che nessun sistema poteva reggersi sull’idea esclusiva
di un mercato autoregolato. La prima globalizzazione, quella degli anni
successivi al primo conflitto, la guerra civile europea che innescò il secolo
americano, aveva stravolto in profondità le vite di milioni di persone, e la
ricchezza enorme creata per pochi scatenò drammi terribili, degrado umano,
miseria diffusa, fine della coesione sociale. Per la prima volta nella storia,
il mercato era diventato il fondamento dei rapporti economico sociali. Esito,
la moltiplicazione di quella società degli abissi, l’universo di dannati che
all’inizio del Novecento indagò personalmente uno scrittore come Jack London,
anticipando le ricerche sul campo che fecero poi la fortuna dei fondatori di
una nuova scienza, l’antropologia culturale.
Lo sbocco finale fu una guerra
tremenda, la seconda, le cui ferite ed i cui esiti ancora gravano sulle spalle
di miliardi di esseri umani. Durante il primo conflitto mondiale,
Georges Clémenceau, primo ministro francese, pronunciò una celebre frase,
diventata aforisma: La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai
militari. Aveva ragione, ma al termine di quella che Benedetto XV chiamò
nel 1917 (l’ anno di Caporetto) inutile strage, fu tra i protagonisti di quel
folle trattato di Versailles che, umiliando la Germania, gettò la basi per
il secondo, successivo conflitto.
La vita dei popoli, delle nazioni
e degli Stati, nondimeno, è bene troppo prezioso per consentire che sia in mano
a soggetti fittizi come i mercati, dietro i quali non si nasconde neanche più
la peggiore genìa dell’umanità: i banchieri e gli usurai globali, quelli che
promuovono guerre, alimentano conflitti, diffondono odio e povertà per i loro
fini, che sono ormai chiari e riguardano il dominio globale sulle nostre vite e
sul creato.
Ringraziamo Rodrik e i sempre
meno rari uomini del sistema che mettono in guardia dalle degenerazioni della
globalizzazione economica e finanziaria, c’è bisogno anche di loro, ma non
sussiste alcun trilemma. Con la globalizzazione, crolla qualunque forma di
democrazia, diretta, rappresentativa, partecipativa, nazionale, popolare e
qualunque altro aggettivo possiamo inventare, e muore ogni sovranità dei
popoli, delle nazioni e degli Stati. La posta in gioco è quella. O a favore, o
contro la
globalizzazione. A parte il gatto di Schroedinger, vivo e
morto nello stesso momento, non vi è una terza possibilità tra la vita e la
morte.
I popoli hanno riflessi di vita.
Non possiamo affidare noi stessi, vita e natura, al tornaconto di una
oligarchia profondamente antiumana, l’“inimica vis”, una forza brutale e
nemica, come scrisse della massoneria Papa Leone XIII già nel 1892, l’anno dopo
la Rerum Novarum,
la grande enciclica che definì la dottrina sociale cattolica. I nemici si
trattano da nemici, e si combattono.
Del resto, l’impossibile trinità
della globalizzazione è così evidentemente contro tutti e contro ciascuno che
il vero sbigottimento è dover gridare nel deserto, o quasi, per avvertire del
pericolo. Ma questo è il tempo previsto da Gilbert Keith Chesterton in cui
fuochi devono essere attizzati per dimostrare che due e due fanno quattro, e
spade devono essere sguainate per dimostrare che l’erba è verde in estate.
di Roberto Pecchioli
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