Tratto da "GIORDANO BRUNO" di Matteo D'Amico
Giordano Bruno affronta un fondamentale argomento che si opponeva alla visione del cosmo sostenuta da Copernico, ovvero l'autorità delle Sacre Scritture, che in alcuni passi sembravano sostenere una visione geocentrica dell'universo,
Bruno argomenta con grande efficacia anticipando quanto verrà stabilito successivamente da Galileo Galilei nelle lettere a padre Benedetto Castelli (1613) e alla Gran Duchessa Madre di Toscana (1615)
Innanzitutto egli fa notare che nella Sacra Bibbia, non si sviluppa una filosofia sistematica e articolata, ma si ha di mira la vita morale dell'uomo; Essa è scritta per il Popolo, privo di cultura e capacità contemplativa:
"Credetemi se gli Dei si fusero degnati di insegnarci la teorica delle cose della natura, come ne han fatto favore di prpporci la pratica di cose morali, io più tosto mi accosterei alla fede de loro rivelazioni, che muovermi punto della certezza de mie ragioni e proprii sentimenti . Ma come chiarissimamente ognuno può vedere, nelli divini libri in servizio al nostro intelletto non si trattano le demostrazioni e speculazioni circa le cose naturali, come se fusse filosofia; ma in grazia della nostra mente ed effetto, per le leggi si ordina la pratica circa le azioni morali. Avendo dunque il Divino legislatore questo scopo avanti agli occhi, nel resto non si cura di parlare secondo quella verità, per la quale non profittarebbono i volgari per ritrarse dal male e appigliarse al bene; ma di questo pensiero lascia agli uomini contemplativi, e parla al volgo di maniera che, secondo il suo modo de intendere e di parlare, venghi a capire quel ché principale"
La Bibbia dunque in molti luoghi parla secondo il comune e volgare di sentire per non scandalizzare lettori impreparati a comprendere verità più profonde. Parlare con i termini della verità, dove non bisogna, è voler che il volgo e la sciocca moltitudine, della quale si richiede la pratica, abbia il "particulare" intendimento, sarebbe come voler che la mano abbia l'occhio, la quale non è stata fatta dalla natura per vedere, ma per operare e consentire alla vista.
Pertanto non si dovranno leggere in modo letterale i testi sacri dove essi parlano di fenomeni naturali e celesti, anche perché essi sono pieni di immagine contraddittorie e del tutto difformi, fra l'altro, da quelle usate dalla filosofia di Aristotele e dalla scolastica.
"L'infinito assume così una valenza per l'uomo. Non è oggetto intellettuale: l'infinito diventa esperienza del luogo naturale della propria esistenza. La concezione dell'infinito corrisponde al problema esistenziale del vivere in una dimensione senza centro e senza sponde e, al limite senza significato".
Questa situazione proprio perché tra cielo e terra, intesi sia la tradizione Aristotelica, che secondo quella Cristiana, non c'è rapporto gerarchico guardare in cielo non è più guardare in alto, dove in alto ha il valore di un sussidio morale, ma è guardare un punto qualsiasi. Non c'è più cielo e non c'è più terra, isola promessa e valle di lacrime. L'eguaglianza metafisica del cielo e della terra abolisce il sentimento della speranza Cristiana, come sentimento sensato.
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