#IOSTOACASA: COME LA PAURA E LA MANCANZA DI RAGIONE UCCIDONO LA LIBERTÀ E LA
DEMOCRAZIA
La
campagna del governo #iostoacasa sarà ricordata come un esempio da
scuola di come in pochissimo tempo, ignoranza e paura possono cancellare
il patto di mutua ragione tra cittadino e istituzioni. Di fronte alla
minaccia del virus e il rischio del collasso del sistema sanitario, il
governo ha proceduto, a partire dal 21 Marzo a una campagna di
quarantena basata sull’hashtag #iostoacasa convincendo milioni di
italiani che stare il più a lungo possibile nel chiuso delle loro
abitazioni è l’unica strada possibile per fermare la avanzata del virus.
Questo
è ovviamente falso. Altri hastag, molto più precisi e dettagliati, come
#iostoatremetri o #iostodasolo, sarebbero stati molto più onesti e,
nella misura in cui sarebbero stati più sostenibili, sarebbero stati
anche molto più efficaci. Purtroppo, il governo ha invece scelto di
fondare la sua campagna su un diktat approssimativo e dannoso.
È
ovvio a chiunque voglia esercitare un po’ di buon senso come stare al
chiuso con la famiglia non è sostenibile e richieda per lo meno
l’accesso a supermercati e altri servizi essenziali. Di per sé rendendo
vana la pretesa di una applicazione del diktat. Ma è altrettanto
evidente che non si tratti nemmeno di una misura necessaria, perché
basterebbe stare a distanza e seguire le norme previste dalla OMS
(mascherine, lavaggio mani, etc).
Tuttavia,
la richiesta ai cittadini di compiere un SACRIFICIO è stata
ideologicamente efficace, soprattutto in un paese con le nostre radici
storico-culturali. Stare a casa è diventato subito un gesto
scaramantico, che si fa per motivi tra la superstizione e l’appartenenza
alla comunità. Nessuno si interroga sui meccanismi di trasmissione del
virus.
Sono demandati agli esperti, come in passato era demandato ai
preti di interpretare le sacre scritture e agli intellettuali di
sinistra di fare l’analisi del momento storico. La popolazione è
contenta di affidare ad altri, esperti o autorità che siano, il proprio
destino contando nel principio antico che è più importante appartenere a
una comunità, sia un gregge di pecore o una torma di Lemming, il
proprio destino.
Ai
virologi non vengono chiesti lumi circa i meccanismi di trasmissione
del virus, ovvero un trasferimento di conoscenza che richiederebbe, da
parte delle persone, un atteggiamento di comprensione
critico-scientifica del problema, ma regole e direttive da applicare in
modo fedele salvo eccezioni (“padre ho tanto peccato, mi dia
l’assoluzione”).
La
minaccia del virus, da problema concreto da affrontare con gli
strumenti della ragione, è stata trasformata nella espressione delle
colpe morali di una parte dei cittadini e ha legittimato molti altri
nella presunta affermazione della propria superiorità morale.
Atteggiamento paternalistico e moralistico in tutto e per tutti simile
alla genuflessione superstiziosa di molte religioni. Non si salveranno
dal virus i più accorti che faranno uso della propria intelligenza, ma i
più giusti che sapranno sacrificarsi e, insieme agli altri giusti come
lor pari (o appena meno), meritarsi un posto sull’arca galleggiante. O
questo la gente crede.
Soltanto
questa deriva salvifico-moralista può spiegare l’acredine e l’astio
moralistico (l’onda di m…a con cui si sono affrontate le posizioni non
allineate). Il dissenso è stato immediatamente associato con la
indegnità morale del difensore.
Chi sosteneva l’importanza dell’attività
fisica è stato immediatamente deriso (la “corsetta”, “andare a spasso”)
o associato a tratti moralmente inferiori (narciso, egoista,
individualista, persona priva di rispetto), mentre l’abuso di
carboidrati, tabacco e alcool che pure ha accompagnato la clausura
domestica viene visto con indulgenza (tabacco) e generalmente con vera e
propria simpatia (alcool e cibo).
È ovviamente irrazionale pensare che
chi corre manchi di rispetto mentre chi sforna torte e pizze sia un
monaco penitente, ma è coerente con la cornice ideologica dove il virus
deve essere sconfitto dal sacrificio e dalla sottomissione alla autorità
e non dall’intelligenza e dalla tenacia.
Non
si deve correre, andare al mare, passeggiare in montagna, non perché
sia un’attività oggettivamente correlata con il virus, ma perché siamo
indegni, incapaci di fiducia. Siamo cioè peccaminosi e dobbiamo mondarci
dei nostri peccati, soffrendo tutti insieme.
Magari spiando dalle
tapparelle chi non si sottopone agli stessi riti. La giustificazione del
divieto di stare all’aperti da soli è analoga a quella che viene data,
in nazioni dove i costumi impongono la repressione sessuale, perché le
donne si debbano coprire il corpo e il viso: perché se lo facessero
tutte, i maschi essere tentati dal fare violenza. E quindi, poiché gli
esseri umani sono indegni di fiducia, anche chi non ha colpa (le donne)
devono vivere segregati. Non a caso, in questi paesi, casa e vestiti
hanno un ruolo simile a quello della casa in questi giorni di
quarantena, spazio privato sottratto al presunto pericolo esterno (che
invece è solo interno).
In
questa atmosfera irrazionale, resa possibile dalla tradizionale
mancanza di cultura scientifica, l’applicazione del diktat diventa un
articolo di credo, spesso imposto più dai fedeli (i solerti sceriffi da
balconi) che dalle stesse autorità (vigili e polizia). Si chiudono
parchi e aree balneari, si inviano i droni per individuare pericolosi
camminatori solitari, si inviano elicotteri per stanare bagnanti e
subacquei (non è una esagerazione).
A nulla vale il fatto che, a detta
della OMS, il virus non sopravvive all’aperto sotto l’effetto dei raggi
del sole e che, anzi, basterebbe l’aria aperta per disperdere la carica
virale sotto ogni soglia di pericolo. Contro ogni ragione, l’ambiente
esterno è associato con la libertà di pensiero e di movimento in cui i
cittadini impauriti da una propaganda martellante dei media non possono
che credere. Come ha recentemente scritto Recalcati, “l’odio è non
sopportare la libertà dell’altro”.
Come
nel romanzo di Orwell le persone sono isolate le une dalle altre e
soggette a una continua imposizione di notizie da parte di schermi
installati nelle loro abitazioni. A differenza della distopia, nel
nostro caso gli schermi sono pagati direttamente da noi.
Il
runner solitario non mette a rischio la salute fisica dei cittadini, ma
mette in discussione il valore salvifico della loro presunta moralità:
“se io sto in casa a soffrire, perché non lo fa anche lui”. E così si
deve stare in casa non per evitare il virus, ma per non mettere in
discussione l’autorità del governo cui la società ha demandato la
propria libertà. Perché il sacrificio della libertà di tutti sia
efficace, deve essere condiviso – non si deve parlare in chiesa o
mettere in discussione le parole del sacerdote (in questo caso l’esperto
scelto dal governo), è un mancare di rispetto. Così si rivela il lato
oscuro della irrazionalità: paura e ignoranza. È un meccanismo
raccontato da tantissimi, da Chomsky a Benasayag, da Canetti a Foucalt,
da Hobbes a Machiavelli. Non c’è bisogno di citarli.
L’ignoranza
gonfia la paura che cerca nel sacrificio della libertà e nella
sottomissione all’autorità una salvezza che viene applicata con la
stupidità irrazionale propria della superstizione.
L’aspetto
peggiore si è manifestato in tutte quelle forme di intolleranza e di
miseria umana che trovano amplificazione nel razzismo da balcone. Si
spiano le persone perché gli altri non sono più percepiti in quanto
esseri umani, ma come un potenziale pericolo. L’applicazione rigida
della legge diventa il pretesto per sfogare invidie, rivalità, complessi
di inferiorità, asti campanilistici.
Felice
Cimatti, in una recente intervista ha affermato “ci sono le ragioni
della medicina, ma non ci sono solo le ragioni della medicina. […]
Sostenere che non è tempo per discutere di filosofia e di libertà
individuali, che ora è il tempo dell’emergenza, è esattamente il tipo di
risposta che non promette nulla di buono.”
Quando
la libertà individuale è sospettata di egoismo, quando si avvalla il
principio etico-politico che la sola vera libertà è quella che esprime
il bene universale (che poi non è mai universale, ma di qualche
particolare che ha la forza per proporsi e, invero, imporsi, come
universale), la persona è in pericolo, perché la persona è la sua
libertà individuale, insindacabile, ingiudicabile, indominabile.
Certo,
ogni società può proporre le sue regole di ingaggio, diciamo così, ma
senza pretendere che il proprio bene (quello della società in gioco)
diventi il bene universale o debba corrispondere al bene di ciascuno. La
paura del virus ha spinto molti a rinunciare ai propri diritti
individuali. La salvezza del corpo in cambio dell’anima – per tanti che
come gli zombie di Romero (altra epidemia, altra allegoria) quell’anima
non l’hanno in fondo mai avuta – è un baratto ragionevole.
Accettare
il diktat dello stare a casa senza ragione non è solo un rischio
sanitario (il danno che tanti avranno da questa inutile clausura
domestica) ma soprattutto il fallimento del patto di ragione tra stato e
cittadino. Allo stato non si chiede di spiegare le motivazioni
razionali delle regole. Ai cittadini non si chiede di comportarsi
responsabilmente. Ognuno viene meno ai suoi obblighi e ci si tratta con
l’indulgenza tipica di persone immature. Il patto non è più basato sulla
ragione e sul rispetto reciproco tra persona e istituzione, ma
sull’interesse e la paura. E la superstizione ne è il naturale collante.
#iostoacasa esprime il fallimento della libertà e della democrazia.
Riccardo Manzotti è
professore di filosofia teoretica (Università IULM di Milano),
psicologo e ingegnere. Dalla teoria che ha elaborato sulla coscienza ha
tratto vari libri, tra cui il più recente The Spread Mind, tradotto ed edito in Italia da Il Saggiatore. https://www.riccardomanzotti.com/
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