venerdì 22 febbraio 2013

un’impresa disperata

La vita come transizione di fase 

Uno dei grandi misteri della vita riguarda il “come” essa sia iniziata. Quale processo ha trasformato una mistura di componenti chimici in qualcosa capace di fare delle scelte ben definite e di organizzarsi al meglio per la propria moltiplicazione?

Per più di un secolo gli scienziati hanno provato e riprovato a ricostruire il primo passo biologico. Il punto focale è sempre stato scoprire come i mattoni chimici della vita (materia organica) possano essersi sintetizzati nella Terra antica e, forse, nello spazio. Purtroppo, ciò è capitato troppo tempo fa e trovare le tracce per studiare le trasformazioni chimiche dettagliate è un’impresa disperata.

Poco male, dicono all’Università dell’Arizona: è comunque  necessario un nuovo approccio. E’ inutile cercare nella chimica organica i segni della trasformazione, bisogna impostare il problema in modo del tutto nuovo.

In parole semplici, non basta studiare l’hardware (le basi chimiche della vita), ma il software, ossia il contenuto d’informazione e il suo utilizzo. La chimica spiega la sostanza della macchina, ma questa non può funzionare senza dati e senza un programma. La vera differenza tra non-vita e vita è il modo con cui gli organismi sanno utilizzare le informazioni che scorrono continuamente nel sistema. In altre parole, la chimica organica fornisce il materiale e i dati necessari, ma solo un programma può leggerli ed elaborarli.

Ammetto che la risposta per molti sembrerebbe semplicissima: “la scintilla divina, ossia la capacità di leggere i dati e di sfruttarli per scopi ben precisi”. Tuttavia, se non vi è stato bisogno di scintilla divina per creare il computer “organico” , non potrebbe darsi che anche il suo utilizzo non ne abbia avuto bisogno?

Quando l’uomo studia i processi vitali non fa altro che analizzare i segnali inviati dalle cellule e seguire i programmi di sviluppo, la lettura dei codici che contengono le istruzioni, la trasmissione dei dati fondamentali che legano generazione a generazione. In altre parole, cerca di leggere il software, indipendentemente dall’hardware che lo contiene.

I ricercatori dell’Arizona si chiedono allora se non sia il caso di entrare sempre più nei dettagli del programma e cercare di studiarne i metodi elaborativi di base.

Essi hanno perciò posto il problema da un punto di vista fisico: la vita, rispetto alla non-vita è una specie di transizione di fase. Essa è unica e descrivibile (esiste un solo programma in grado di leggere i dati chimici ed elaborarli). Bisogna solo capire i criteri base su cui si fonda il programma.

Questo approccio (non certo ovvio) è in netto contrasto con quanto fatto finora, quando si considerava la vita come un problema di chimica e si ci arrovellava nella ricerca della reazione critica di passaggio da una mistura di molecole organiche a un’entità vivente. In altre parole, si continuava a studiare l’hardware sperando che il problema fosse solo un suo passo successivo.

Il nuovo approccio intende capire la vera differenza che esiste tra la replica “stupida” e automatica di un cristallo (chimica) e una replica organizzata e dettata da un programma vero e proprio (biologia). In un certo senso bisogna passare da una visione casuale dell’evoluzione a una visione causale.  Solo così si potrà capire la transizione di fase da non-vita a vita.

Che dirvi? Il discorso è bello e stimolante, anche se sconfina facilmente nella visione etica della singola persona. Limitare la vita a un processo puramente chimico era forse troppo riduttivo; pensare di descrivere il programma che è in grado di leggere le informazioni e usarle seguendo regole prestabilite, è sicuramente una fisica terribilmente ambiziosa. Tuttavia, sappiamo benissimo che i processi fisici fanno qualcosa del genere, in moltissimi casi…




di Vincenzo Zappalà
Per chi vuole andare più a fondo, ecco il lavoro originale.

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